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struito in legno, come già dicemmo, al momento dell’urto era in gran parte caduto e questo era sufficiente per costruire una zattera capace di sostenere due persone. Di più il ponte era ingombro di pezzi d’albero e di antenne fornite ancora di numerose corde.
Fathma data un’occhiata ai ribelli che bivaccavano parte sulla riva e parte sulle isole senza più darsi pensiero della darnas, si mise alacremente all’opera. Afferrò un pezzo di tetto e radunando tutte le sue forze lo trascinò a poppa e lo gettò sul basso fondo. Omar fu lesto ad afferrarlo e a montarvi sopra.
— Là, così va bene, mormorò il negro stropicciandosi allegramente le mani. Animo, Fathma, getta giù dei pezzi d’albero o d’antenna che formi lo scheletro della nostra imbarcazione. Giù, giù!
La speranza di scampare all’immenso pericolo che la minacciava, triplicava le forze dell’almea. Ella gettò a Omar sei o sette tronconi d’albero, tavoli, pezzi di murata, pezzi di rekùba e cordami in grande quantità. Il negro valendosi delle zacchie che ancora ardevano, tenendosi sempre riparato dietro poppa della darnas per non essere scoperto dai ribelli, in capo a mezz’ora costruì la zattera, lunga quattro o cinque metri e larga appena due, ma solidissima. Egli vi imbarcò due remi, due fucili, munizioni, due scimitarre, alcuni vasi di merissah del kèsra, (sorta di pane di durah cotto su di una lastra di pietra) e parecchie libbre di carne fritto nel burro che si conserva lungamente.
Aveva appena terminato che sulla riva opposta, si udirono degli schianti seguiti da fischi sonori. L’oscurità diventò profonda.
— Bene, mormorò il negro. Le zacchie hanno finito di ardere e i rottami sono capitombolati nel fiume. Presto, padrona, discendi.
Fathma non se lo fece dire due volte. Salì sul bordo, si aggrappò ad una fune e si calò lentamente sulla zattera che minacciava di rompere l’ormeggio