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Entrarono nella zeribak, in mezzo alla quale stavano inginocchiati i due animali. Questi mahari o hadjin, meglio conosciuti per dromedari, sono cammelli riservati per le corse, docili come cani, più intelligenti dei cavalli, più sobri e più pazienti dei djemel o cammelli comuni, dal portamento nobile, altero, e che alla menoma pressione della guida legata all’anello incastrato nelle nari, vanno rapidi come il vento percorrendo persino settanta miglia al giorno. S’accontentano di un nulla, d’un pezzo di pane, d’un pugno d’orzo o di datteri o di un fastello d’erbe secche e spinose, e son felici quando l’arabo lascia a loro aspirare il fumo del scibouk prima che passi dalla cannuccia e doppiamente felici d’una parola affettuosa, d’una semplice carezza.
Il sudanese li aveva già insellati, accomodando sulla loro gobba una sella di pelle di montone cava nel mezzo e fornita dinanzi e di dietro di un pezzo di legno rotondo, posto orizzontalmente, che serve di appoggio al cavaliere, e appendendo ai loro fianchi i fucili remingtons, le borse di cuoio e le otri contenenti il cibo o l’acqua, viveri indispensabili in Africa, dove le città sono rarissime e i villaggi assai scarsi.
Nel mentre che il greco esaminava le cinghie della sua cavalcatura, Abd-el-Kerim con un cenno impercettibile chiamava a sè il sudanese.
— Hai veduto passare alcuno? chiese rapidamente e sotto voce.
— Sì, disse il sudanese.
— Chi?
— Due persone su di un mahari dal mantello fosco.
— Erano?...
— L’ignoro, ma una pareami una donna.
Abd-el-Kerim sussultò. La sua faccia, che poco prima era tetra, s’illuminò di un raggio di gioia. Con un gesto congedò il sudanese.
— In sella Notis, diss’egli.
I due ufficiali fecero inginocchiare i mahari emet-