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caffè. Fece un gesto di sorpresa e fors’anco d’impazienza.
— Oh!... esclamò egli.
Uno strano lampo guizzò nei suoi neri occhi. Quasi nel medesimo istante Abd el-Kerim si volse. La sua faccia si alterò, atteggiandosi a meraviglia e a dispetto.
— Che vuoi, Notis? chiese egli colla maggior calma del mondo.
— Ho veduto una zeribak, rispose il greco con egual tranquillità.
— Non temere, che è quella del sudanese. Là vi sono i nostri mahari.
Notis non si mosse; aspettò che egli fosse vicino, poi gli chiese bruscamente.
— Che hai Abd-el-Kerim?
L’arabo lo guardò come cercasse leggergli negli occhi lo scopo di quella domanda.
— Tu guardavi fisso fisso Nachmudiech, continuò Notis quasi distrattamente. Perchè?
— Bah! per curiosità.
— Ti dispiacerebbe per caso allontanarti da quel villaggio?
— Perchè, e l’arabo lo guardò ancor più attentamente e con sospetto.
— Non so, mi pareva...
— Non ho alcuna cosa che m’interessi a Nachmudiech. Tiriamo innanzi, Notis, che è tardi. Dobbiamo fare più di 40 miglia per giungere a Hossanieh.
Essi si rimisero in cammino e giunsero vicini alla zeribak, in mezzo alla quale vedevansi sorgere due lunghe aste sostenenti uno stracciato vessillo egiziano.
Al primo fischio che mandò Abd-el-Kerim, un sudanese uscì, abbigliato con una semplice farda bianca gettata graziosamente su di una spalla e d’un tarabisc rosso sul capo.
— I mahari? chiese brevemente l’ufficiale.
— Sono pronti.