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— Ci sei? chiese sottovoce Daùd, dopo qualche istante.
— Ci sono, rispose egli. Attenti.
Guadagnò il davanzale della finestra e guardò entro. Una lampada illuminava fiocamente la stanza e seduta su di un divano vide Fathma: respirò.
Allungò una mano e aprì le imposte. Al cigolìo che mandarono girando sui cardini, l’almea si levò in piedi non dissimulando un gesto di terrore. Omar si slanciò entro cadendo ai suoi piedi.
— Zitto, Fathma, mormorò egli, vedendo che apriva le labbra per mandare un grido. Zitto, che sono io, Omar, il fedele schiavo di Abd-el-Kerim.
L’almea fu ancora in tempo di arrestare il grido che stava per uscirle. Ella prese la testa del negro fra le mani e l’alzò guardandola con occhi umidi.
— Tu, Omar, tu, balbettò con un filo di voce che la gioia e l’emozione rendevano tremula. Gran Dio! Che vieni a far qui, in questa stanza, dove sono prigioniera?
— Vengo a salvarti, Fathma, vengo a strapparti dalle mani di Notis.
— Ma, disgraziato, non sai dunque che vi sono quindici beduini che vegliano e che potrebbero da un momento all’altro entrare ed ucciderti?
— Che importa a me? Del resto sono armato e ho abbasso degli amici che vegliano.
— Degli amici?
— Sì, Fathma, dei cuori generosi che s’interessarono della tua disgrazia. Non temere di nulla; io ti libererò per ridarti al prode Abd-el-Kerim.
L’almea emise un gemito e portò ambe le mani al cuore.
— Narrami, Omar, dove trovasi colui che tanto amo. Non so più nulla di lui e non lo rividi più da quel funesto dì in cui fummo separati. È vivo ancora?... Pensa egli alla sventurata Fathma? Parla!… Parla!…
— Sì, è vivo, e trovasi a Gez-Hagida ed è sempre innamorato di te. Fu lui che mi comandò di venire qui e che mi procacciò i mezzi necessari per disertare;