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insegnano tutte le moal o elegie che sanno, raccontano storie galanti o danno lezioni di ballo; assistono alle pompe matrimoniali precedendo il corteggio della sposa e seguono persino i funerali cantando moal lamentevoli, piangendo e dimostrando un tal dolore che qualcuno potrebbe credere che facciano ciò da senno e di cuore anzichè indotte dal prezzo della mercede.

L’almea, entrata nel caffè, dopo di aver salutato gli astanti con un sorriso affascinante e d’aver dispensato baci colla punta delle sue manine, s’avvolse in un azzurro velo.

Quasi subito entrò un giovane schiavo munito di un cembalo. Egli si assise in un canto e, dopo di aver suonato per qualche minuto, gridò:

— Nahbé ia (ecco l’ape!).

L’almea che aveva di già cominciato a danzare con brevi passi e flessuosi molleggiamenti sui fianchi facendo ondeggiare graziosamente il velo e tintinnare i cerchietti d’oro delle braccia, a quel grido si era subitamente arrestata, guardandosi attorno con profondo terrore.

— Ah! esclamò Notis. Eseguisce la danza dell’ape. Sta attento, Abd-el-Kerim, che merita di essere veduta.

L’arabo non lo udì nemmeno. Colla testa stretta fra le mani e i gomiti appoggiati sul tavolo, egli fissava l’almea con due occhi fiammeggianti. La sua faccia era visibilmente alterata, le sue labbra di quando in quando fremevano e grosse gocce di sudore scorrevangli sull’ampia fronte. Non respirava quasi più; lo si avrebbe detto pietrificato.

L’almea s’era messa allora ad agitare le braccia come cercasse di respingere l’ape che voleva punzecchiarla, atteggiando il suo superbo volto ad una grande angoscia, ed agitava il leggero velo azzurro con una varietà di movenze voluttuose. Talvolta si soffermava come spossata e i suoi occhi, che scintillavano d’un fuoco strano, selvaggio, si portavano su Abd-el-Kerim, il quale trasaliva come gli penetrassero in fondo all’anima.