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— Kebir, diss’egli, facendogli scivolare in una saccoccia una borsa ricolma di talleri. Guai a te se torci un capello all’almea.

— Non temere di nulla, Notis, rispose l’aiutante. Ti comprendo di volo.

— Va ora, e sta attento ad Abd-el-Kerim.

L’aiutante si pose in cammino seguito dai dieci soldati e ad una certa distanza dal greco che s’era tutto coperto col taub. Attraversarono il campo nel quale si ordinavano le compagnie e giunsero alla casupola di Fathma nel momento che l’almea appariva alla porta accompagnata da Abd-el-Kerim e dal capitano Hassarn.

— Alto là! intimò Kebir, sguainando la scimitarra.

Alla vista dell’aiutante di campo di Dhafar pascià colla scimitarra in mano e dei dieci soldati colle baionette in canna, un brivido di terrore era passato per le ossa di Fathma e di Abd-el-Kerim. Essi s’arrestarono, guardandosi in viso con ansietà e con meraviglia, non sapendo spiegare il perchè di quella presenza di soldati armati.

— Che significa ciò? chiese l’arabo con stupore.

— Ho l’ordine d’arrestare uno di voi, rispose Kebir.

— Uno di noi? esclamarono tutti e tre ad un tempo.

— Fathma, disse l’aiutante ponendole una mano sulla spalla, in nome di Dhafar pascià io ti arresto!...

Un grido d’orrore e d’angoscia sfuggì dalle labbra dell’almea.

— Io arrestata! balbettò la poveretta... Io... io!...

— È impossibile! gridò Abd-el-Kerim, dando indietro.

— Qui c’è uno sbaglio, disse Hassarn. Tu vuoi scherzare, Kebir.

— Ti dico io, Hassarn, che ebbi l’ordine d’arrestare l’almea Fathma, replicò l’aiutante di campo.

— Ma di che sono accusata?... Non ho fatto male a nessuno, io.

— Ignoro perfettamente il motivo.

— Kebir, disse Abd-el-Kerim con voce rauca. Non ischerzare, o per Allàh io ti spacco il cranio.