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gigantesca foresta, fugando le iene e gli sciacalli che rompevano il silenzio della notte con orribili scrosci di risa e urla interminabili, poi si fermò, anelante, spossato, colla spuma alle labbra.
Tutto ad un tratto udì un grido straziante, terribile, prolungato; era un grido d’angoscia, una invocazione suprema, un appello disperato. Nell’udirlo, i capelli si rizzarono sulla fronte e il sangue poco prima infiammato gli si gelò nelle vene.
— Dio! Dio! qual voce! balbettò egli. Dove ho udito io questa voce? Sono o non sono sveglio. Avanti! avanti!
Partì come una freccia coll’jatagan in mano, dirigendosi verso un macchione di piante di palme dal quale era partito il grido e sbucò in una piccola radura.
Là legata ad un gigantesco tamarindo, semi-nuda, stava una donna e ritta dinanzi a lei una spaventevole jena che la stringeva fra i suoi artigli. Abd-el-Kerim gettò un urlo selvaggio, furioso, strozzato.
— Fathma!... Fathma!...
—Ruinò come una valanga addosso alla jena che stava per sbranare la sventurata almea e con un terribile fendente le spaccò il cranio.
— Fathma! mia adorata Fathma! esclamò l’arabo con istrazio.
Tagliò rapidamente i legami e ricevette fra le braccia quel corpo inerte e semi-gelato: gli occhi dell’arabo s’inumidirono.
— Rispondi, Fathma, rispondi, continuò egli, baciandola sulle gote. Gran Dio! che è successo mai?... Come sei qui e in questo stato?...
Un debole sospiro uscì dalle labbra dell’almea e poco dopo aprì gli occhi e li fissò in quelli dell’amante.
— Dove sono? chiese ella con un filo di voce.
— Fra le mie braccia, al sicuro d’ogni offesa! esclamò Abd-el-Kerim che rideva e piangeva ad un tempo. Non aver paura, Fathma, sono qui io a difenderti, sono qui io a salvarti.