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Si gettò contro terra e si avanzò a carponi tenendosi dietro ai cumuli di rottami, ma il dongolese aveva buoni occhi e vegliava attentamente.

— All’armi! gridò egli.

Gli sparò addosso una pistolettata che aveva tratta rapidamente dalla cintura.

Abd-el-Kerim evitò la palla abbassandosi bruscamente, poi si rialzò e si precipitò in mezzo alle boscaglie, nel momento istesso che Fit Debbeud e i suoi beduini saltavano fuori dalla galleria.

Non si volse nemmeno per vedere se l’inseguissero. Prese un sentiero e si die’ a fuggire rapido come una saetta, ora correndo come una palla di cannone e ora deviando e saltando, lacerando i cespugli, lasciando mezze vesti fra le spine, cozzando o incespicando fra i rami e le radici che le tenebre non gli permettevano ben di distinguere.

Udì dietro di sè le voci rauche dei beduini poi tre o quattro colpi di moschetto ma non s’arrestò. Percorse così più d’un chilometro e stava per rallentare la corsa quando si trovò improvvisamente dinanzi a una donna che veniva avanti a gran passi.

— Fermati, Abd-el-Kerim! esclamò quella donna con tono minaccioso.

L’arabo dette indietro e barcollò come se fosse stato colpito da una coltellata. Dinanzi gli stava Elenka, tutta trafelata, sconvolta, colle mani tese innanzi come per arrestarlo.

— Tu! Tu! ruggì egli. Tu, Elenka!

— Sì, Abd-el-Kerim, ancora io che giungo in tempo per salvarti!

L’arabo la guardò cogli occhi strambasciati e nei quali balenava una fiamma d’ira, d’immenso furore.

— Fermati, Abd-el-Kerim! ripetè la greca. Dove vai? Dove fuggi? Chi ti liberò?...

— Sciagurata!... Che hai fatto dell’almea? chiese l’arabo con voce strozzata.

— Non chiedermi conto di quell’odiata rivale.