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L’almea rabbrividì e si sentì prendere dallo spavento.

— Mostro! balbettò la disgraziata.

— Orsù, vendichiamoci, disse la greca spietatamente. Tu spregevole almea hai alzato gli occhi fino al fidanzato di una greca di sangue nobile. È un’offesa che non si lava che a colpi di corbach e io strazierò le tue belle carni colla correggia del mio staffile.

L’almea fece uno sforzo supremo per ispezzare i legami e gettarsi su quel mostro in gonnella, ma le corde resistettero alla potente torsione. Ella si dimenò forsennatamente facendo crocchiare le ossa delle braccia.

— Non toccarmi! non toccarmi! rantolò.

Elenka, si avvicinò alla rivale, con un violento strappo le lacerò la ricca farda trapunta in oro e l’habbaras di seta azzurrina che la copriva, e su quelle carni bronzine e vellutate applicò un furioso colpo di corbach che tracciò una riga violacea.

L’almea cacciò fuori un urlo strozzato, furibondo, un urlo d’angoscia, di vergogna, d’ira e si piegò come fosse stata spezzata in due, cogli occhi fuor dall’orbite e con una bava sanguigna sugli angoli delle labbra contorte per lo spasimo.

— Basta, disse il dongolese. È troppo lacerarle quel seno da urì.

La greca alzò una seconda volta lo staffile, ma lo riabbassò e lo gettò lungi da sè. L’almea era svenuta e rimaneva sospesa per le corde.

— Ecco come si vendica una greca, disse Elenka con un sorriso feroce.

— Che facciamo ora di lei? chiese Nagarch. Devo staccarla.

— Mai più, la lasceremo qui sola e legata.

— Ma le tenebre cominciano a calare e fra pochi minuti sarà notte.

— E che importa a me se fa notte.

— Voglio dire che i leoni, le pantere, le jene e gli sciacalli usciranno dai loro covi e che si getteranno sull’almea.