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— Sì, e se potessi farei a brani anche te! gridò Fathma. Vattene di qua, vigliacca, vattene via traditora, maledetta, assassina.

— Nagarch, legala al tronco di quel tamarindo. Il dongolese afferrò fra le sue robuste braccia l’almea che esausta di forze non era più capace di opporre resistenza e la legò al tamarindo con forti corregge di pelle. La greca si mise a sogghignare.

— Che direbbe Abd-el-Kerim se ti vedesse così? diss’ella beffardamente.

— Taci, non nominarmelo almeno. Vuoi uccidermi, giacchè per tradimento sono caduta nelle tue mani, uccidimi ma non tormentarmi.

— Ah! Credi tu che una greca si vendichi d’una rivale uccidendola? No, Fathma non sperarlo da me, che ti esecro e che giurai d’essere senza pietà. Giacchè il parlare di Abd-el-Kerim ti produce l’effetto di una stretta al cuore, parliamo di lui.

— Non ti ascolterò, jena codarda.

— Non me ne importa. Sai dove trovasi il tuo amante così misteriosamente sparito?

— Non te lo chiedo. Hassarn lo troverà e guai a coloro che l’avranno rapito, guai!

— Se tu nol sai, Abd-el-Kerim trovasi in mia mano!...

L’almea provò una scossa come fosse stata tocca da una pila elettrica. Impallidì orribilmente, chiuse gli occhi e li riaprì che roteavano in un cerchio sanguigno.

— No!... tu menti!... tu menti! ripetè ella con disperazione.

— Te lo giuro Fathma. Trovasi in un sotterraneo delle rovine di El-Garch, e lo tormento dì e notte dissanguandolo lentamente.

— Ah! feroce iena!... Ma che vuoi farne?

— Voglio farlo morire, ma farlo morire a oncia a oncia.

— Ma io lo salverò.

— Non ti lascerò il tempo. Domani sarai uno scheletro roso dal dente dei leoni e dei sciacalli.