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Nagarch apparve fra le acacie, e Alek strisciò diritto verso la macchia, nel mezzo della quale stava sdraiata l’almea colla carabina puntata dinanzi a sè. Di quando in quando mandava il lugubre urlo dello sciacallo così bene imitato da crederlo naturale.
Già Alek era giunto a soli pochi passi di distanza, quando un ramo si spezzò sotto i suoi piedi. L’almea scattò in piedi colla rapidità del lampo, vide il dongolese, puntò rapidamente l’arma e fece fuoco.
Alek girò su se stesso portando una mano al petto, poi si scagliò innanzi con impeto disperato rigando la via di sangue che sgorgavagli abbondante da un fianco.
— Arrenditi! urlò egli.
Fathma aveva impugnato la carabina per la canna e assestò un colpo sì tremendo al dongolese, che cadde al suolo colle cervella schizzanti dal cranio spaccato. Gettò un urlo, ma uno solo, un urlo straziante, supremo, poi s’aggomitolò su sè stesso e non si mosse più.
— Sono tradita, mormorò l’almea. Ah! maledetta greca.
Ella si gettò fuori della macchia con un pugnale in mano, ma non fece dieci passi che si sentì afferrare per di dietro e gettare violentemente al suolo. Nagarch, poichè era lui, le pose un ginocchio sul petto, le prese ambe le mani serrandole fra le sue come in una morsa, e dopo di averle intorpidite con una violenta torsione le legò per bene.
L’almea quantunque stordita dal colpo e sorpresa dall’improvviso attacco si dibattè furiosamente cercando di risollevarsi ma le fu impossibile. Si mise a ruggire come una leonessa prigioniera.
— Sta ferma, le disse brutalmente il dongolese percuotendola col rovescio del suo scudo. Se continui a muoverti tornerò a torcerti le braccia fino a slogartele.
— Lasciami andare, maledetto da Dio! urlò l’almea digrignando i denti. Lasciami andare, vigliacco!