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— la più soave di tutte — la libertà.
Ma la lingua di bronzo del campanile annunzia l’ora della quotidiana morte. La badessa estràe a fatica il suo mappamondo dal seggiolone che vorrebbe seguirla, e, suffulta alla spalla della Madre Priora, va greve greve alla porta. Tutte si sono alzate, hanno ciascuna ripreso il suo lucernino di ferro e se l’accèndono l’una all’altra. Passa la bisbigliante frotta delle fiammelle per una fuga di pòrtici, illuminando, a intervalli, scrostate e nitrose pitture di Santi, lì per cadere nelle repubblicane cartucce, e impàvide colonnine sotto la soma degli archi e baratri di scale ertissime e sotterranee; poi, le fiammelle sparpàgliansi pel labirinto de’ corritòi, una qui pare affogarsi, là un’altra, e si ode il cricchio e il catenaccio degli usci e si ode il tintinno del mazzo di chiavi della Madre Guardiana che ronda.
E tutto è bujo e silenzio. Comincia il rosicchiare de’ topi e lo sgretolio de’ tarli. Rischiansi i topi a far capolino dai loro pertugi; sdrucciolano fuori, e galòppan su e giù, scambiandosi le visitine notturne. Ce n’è una sorta di spaventosa grossezza; si direbbero gatti; si direbbero frati. E havvi celle che si socchiùdono tacitamente e li accòlgono.
Ecco le stanze della badessa. «Sìleat tumultum càrnis» la soglia dice alle suola. Dentro, illuminazione. Il letto è pesto, sconvolto.