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la capanna dello zio tom


vita! Amare, col cuore spezzato, ciò che per sempre aveva perduto, ed essere legata, mani e piedi, all’uomo che abborriva! Mi consolava in far lettura ad Arrigotto, in giuocar con lui, ballare, cantare con lui; ma ciò spiaceva al mio padrone, ed io non osava negargli cosa alcuna. Egli era imperioso, asprissimo co’ miei figli; Elisa era timida; ma Arrigotto aveva indole altera come suo padre, e non si poteva domare. Il padrone lo coglieva sempre in fallo, lo sgridava, talchè io viveva in una continua paura. Cercai modo che il fanciullo fosse più rispettoso — procurai tenerlo in disparte, perchè io amava i miei figliuoli più della vita; ma tutto fu inutile. Vendè amendue i miei figli. Un giorno mi condusse seco in vettura, e, tornata a casa, non trovai più alcuno! Mi disse che li avea venduti amendue; mi mostrò il danaro, il prezzo del loro sangue. Mi parve allora di esser sola nel mondo. Forsennata, maledissi Dio — maledìssi Dio e gli uomini; e credo che, per qualche tempo, quel crudele avesse paura di me. Ma non cedette; disse che i miei figliuoli erano venduti, ma che dipendeva da lui il lasciarmeli ancora vedere; e che, se io non mi fossi acquetata, sarebbe stato peggio per essi. Potete esigere ciò che vi piace da una donna cui rapiste i figli; mi rassegnai; mi acqnetai; mi lusingò colla speranza che li avrebbe ricomprati; e così passarono una o due settimane. Un giorno, passeggiando a caso, mi trovai presso la Calaboose; vidi una calca di gente all’uscio, e udii la voce di un fanciullo — all’improvviso il mio Arrigotto, svincolatosi dalle braccia di due o tre uomini che lo tenevano, si slanciò strillando verso di me, e si aggrappò alle mie vesti. Que’ miserabili gli piombarono sopra, fieramente bestemmiando: e uno di essi — la cui faccia non dimenticherò mai — mi disse che non intendeva lasciarselo sfuggir di mano; che voleva ricondurlo alla Calaboose, e che ivi gli avrebbe dato una lezione di cui non si sarebbe dimenticato mai più. Mi provai a scongiurare, a pregare, — si beffarono di me; il povero fanciullo mi guardava in volto, si aggrappava a me, finchè, nello strapparnelo, mi stracciarono un lembo della veste; e via lo trassero, mentre gridava: Madre! madre! madre! V’era un uomo che parea sentisse compassione di me. Gli offersi tutto il danaro che aveva, purchè egli almeno si interponesse; scosse il capo e si allontanò. Mi dirizzai, smaniosa, verso casa; parea ad ogni passo che le strida del mio fanciullo mi percuotessero l’orecchio. Trafelante, entrai nella sala, dove trovai Butler, il mio padrone. Gli narrai l’accaduto, lo pregai a correr subito alla Calaboose, ed interporsi. Egli non fece che un sorriso beffardo, mi disse che se il fanciullo era punito, ben gli stava; che era pur forza domarlo, e meglio domarlo per tempo; «che poteva io aspettarmi?» chiese egli.

«Mi parve in quel momento che mi si spezzasse qualche cosa dentro il cervello. Divenni pazza e furiosa. Mi ricordo che vidi sul tavolo un