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la capanna dello zio tom


tutti liberi ed eguali; ed allorchè io era fanciullo, essa mi faceva ripetere: Signore venga il vostro regno. Ora questo regno si avvicina senza dubbio, ma chi può dirne l’ora precisa della venuta?»

— «Agostino — disse miss Ofelia riguardando fissa suo cugino; — io credo in verità, che voi non siate molto lontano dal regno di Dio.»

— «Vi ringrazio della buona opinione; ma son capace di voli e di cadute. Di voli sino alla porta del paradiso, quando si tratta di teoria; di cadute fino alla polvere della terra quando si viene alla pratica. Ma suona il campanello, che ci invita a prendere il thè; andiamo. Non potrete più dire che io non abbia mai parlato da senno una sola volta in mia vita.»

A tavola Maria fece allusione all’incidente di Prue.

— «Suppongo — diss’ella — cugina mia, che ci crederete tutti barbari.»

— «Credo — rispose miss Ofelia — che sia un atto barbaro; ma non per questo vi credo tutti barbari.»

— «Comprendo veramente — rispose Maria — che certe creature sono insoffribili, perverse al punto, che non son degne di vivere. Io non sento per costoro la menoma compassione. Se sapessero comportarsi meglio, queste cose non accadrebbero.»

— «Ma, mamma — disse Eva — quella povera creatura era infelice: ecco perchè si ubbriacava.»

— «Eh, capperi! non è questa una scusa! Talvolta io sono infelicissima. Credo — proseguì con aria meditabonda — d’aver sofferto assai più di lei. Sono infelici perchè malvagi. Ve n’ha di taluni, che non potete domarli a verun costo. Mi ricordo che mio padre avea uno schiavo così infingardo, che, per non lavorare, fuggiva tra i paduli, vivea di rapina e commetteva orrende cose. Fu preso, frustato più volte, ma non se ne raccolse mai alcun frutto; fuggì di bel nuovo, si strascinò tra i paduli, ed ivi finalmente morì. Non avea ragione di fuggire, perchè mio padre trattava sempre bene i suoi schiavi.»

— «Riuscii talvolta a ridurre a partito un negro, che tutti gli aguzzini, tutti i padroni non avean potuto domare.»

— «Voi? — chiese Maria; — sarei lieta di sapere come avete fatto.»

— «Davvero; era un negro robusto, gigantesco, nato in Africa; parea che avesse un istinto invincibile di libertà; vero leone africano. Si chiamava Scipione. Nessuno potea domarlo. Era passato di aguzzino in aguzzino, finchè Alfredo, sperando poterne far qualche cosa, lo comperò. Ebbene; un bel giorno getta a terra con uno schiaffo il custode, e se ne fugge tra i paduli. Noi avevamo diviso allora il nostro patrimonio, ed io m’era recato a visitar mio fratello nella sua piantagione. Alfredo era ar-