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la capanna dello zio tom


invano, avea dovuto infine gittar le armi innanzi a quell’inespugnabile convinzione; e miss Maria, che così la chiamava Dina anche dopo il matrimonio di lei, avea eletto anzi la pace ad ogni costo, che una lotta interminabile e senza frutto. Dina pertanto avea saputo mantenersi il potere supremo; ne ciò le era tornato difficile, essendo espertissima di quell’arte diplomatica che sa riunire insieme le apparenze di una perfetta sommissione con la più ostinata inflessibilità.

Nè ella era manco valente nel trovare ogni maniera di scuse. Anzi ella stabiliva come assioma, che colei che ha l’alta direzione della cucina non può aver torto giammai; circondata d’una moltitudine di subalterni, chè molti ne sogliono essere in tutte le cucine signorili del Sud, trovava sempre assai di leggieri qualche vittima a cui rovesciare in capo la colpa d’ogni sinistro: e così ella era sempre innocente. Se per avventura qualche parte del pranzo riusciva alla peggio, Dina avea per giustificarsi cinquanta ragioni inconcusse: la colpa era tutta d’una cinquantina di persone che duravano ostinatamente contro agli energici sforzi del suo zelo.

Ma la giustizia richiede pure che si confessi che gli ultimi e difinitivi risultati del lavoro di Dina solevano riuscire felici. Certo ella giungeva ai suoi propositi per vie sinuose e rimote, sprezzava ogni unità di tempo e di luogo; la cucina offriva un tale aspetto di disordine, che parea l’avesse posta a soqquadro un uragano: niuna delle stoviglie era mai riposta due giorni di seguito in uno stesso luogo, ma avea tanti siti differenti quanti giorni ha l’anno; contuttociò, purchè s’avesse la pazienza d’attendere, si era certi che il pranzo verrebbe servito con perfetto ordine, e avrebbe avuto tali pregi di squisitezza da meritare gli encomii d’ogni gastronomo più schizzinoso.

Era l’ora in cui soleasi dar principio ai preparativi del pranzo. Dina, che avea bisogno di riposo e di riflessione, se ne stava seduta a tutt’agio sul pavimento della cucina. Ella fumava una certa sua pipa ch’era per lei un arnese di somma importanza, e ch’essa accendeva, quasi un incensiere, ogni qualvolta sentiva che le era d’uopo d’inspirazione: era tale il metodo con cui Dina soleva invocare le domestiche Muse.

Le stavano assisi dintorno diversi membri di quella florida gioventù che suol essere sì numerosa nelle abitazioni dell’America meridionale: chi sgusciava piselli, chi sbucciava patate, chi spiumava polli. Di tempo in tempo Dina interrompeva le sue meditazioni per distribuire qualche colpo d’una sua gran mestola in capo ad alcuno de’ suoi giovani coadiutori. E in vero ella li teneva a severissimo freno, e parea, come solea dire, che cotestoro fossero venuti al mondo all’unico fine di risparmiarle i passi. Era questa la base del sistema di cui ella aveva veduto l’applicazione nella sua fanciullezza; sistema che, mercè di lei, aveva raggiunto un compiuto sviluppo.