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libro quinto 279

Che se mai credi, che quest’arti stesse
C’eran pure altra volta, e il gener nostro
459Fu distrutto dal foco, o per immenso
Tremuoto le città caddero, o gonfj
D’assidue piogge i rapidi torrenti
462Straripando allagâr terre e castella,
Tanto più vinto confessar t’è forza,
Ch’andran pure in rovina e terra e cielo.
465Poi che le cose travagliate essendo
Da tanti morbi e da perigli tanti,
Se a lor sopravvenisse un mal più grave,
468Farían larga di sè clade e rovina.
Nè per altra cagion l’uomo si accorge
D’esser mortal, se non perchè s’inferma
471Degli stessi malori, onde Natura
Già tanti altri cacciò fuor de la vita.
     In oltre, tutto ciò che eterno dura
474È necessario, o che respinga i colpi,
Nè soffra alcuna cosa in lui penètri,
Sì che le collegate intime parti
477Ne disunisca, perchè il corpo ha solido,
Come gli atomi son, la cui sostanza
Mostrammo avanti; o ver duri immortale,
480Però che immune è da qual sia percossa,
Sì come il vuoto, che rimane intatto,
Nè ad impulso di sorta unqua soggiace;
483O perchè in giro non ha spazio alcuno,