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alle bugiarde concessioni venute dallo straniero. I meglio assennati e i caldi propugnatori di libertà, ristettero muti e sperarono su migliore avvenire. Intanto il popolo trionfante acquetossi. Ma, un editto della polizia riaccendeva bentosto i mal sopiti sdegni; e, nel plauso alla Italia e a Pio IX, i vietati attruppamenti ricominciarono sulla piazza; ove, rotto il lastricato, si rompevano le finestre del palazzo di governo, chiamandosi traditore colui che dentro abitava. Il patriarca apparve per benedire alla folla e calmarne la effervescenza; la stupida soldatesca croata che nulla in tali moti intendeva, fece tre scariche sopra gl’inermi, fra cui cinque caddero morti. La misura allora fu colma; i barbari vennero barbaramente trattati; alcuni straziati sulle vie, altri gittati nel canale, altri feriti e morti dalle tegole lanciate dai tetti. Incontanente il Manin otteneva il permesso di organizzare una guardia cittadina, e in poco d’ora le sottoscrizioni sommarono a migliaia. Importanti servigi essa rendeva sin dai primi momenti; imperciocché, sorprendeva in una casa presso il convento de’Franoescani molte materie incendiarie che il governo di celato vi facea trasportare per opera del colonnello della marina, il Marinowich; il quale, detestato da tutti per gl’inumani sud atti, venne il dì ventidue marzo ucciso a colpi di scure dagli operai dell’Arsenale nell’atto che cercava evadere di colà. Quel luogo veniva affidato alla custodia dei militi nazionali e delle truppe di mare, e parte di queste s’impossessarono delle navi ch’erano nel porto. Ottenevasi altresì che i granatieri italiani surrogassero i Croati nella guardia del palazzo governativo. In tal modo, alle autorità parve di essere imprigionate, e si dimisero. 11 vice-presidente Sebregondi notificava dal verone al pubblico la lieta novella ed aggiungeva che il Palffy raccomandava la sua vita e quella della moglie alla generosità del paese. Inutili cautele ed ingiuste verso un popolo che di schiavo ritorna libero, cioè, leale, intero, magnanimo 1 Le campane suonarono a festa. La bandiera nazionale fu portata nel campo di Santa Maria Formosa sotto le finestre del patriarca perchè benedicesse a quel segno votivo. L’odioso stemma austriaco venne staccato, vilipeso, arso per ogni dove; e verso le ore quattro e mezza della sera, Daniele Manin, al finir d’un discorso passionato ed energico, proclamava in faccia al popolo la Repubblica Veneta, propiziandone il di lei antico patrono, San Marco. Bizzarria di destino! Un Manin— patrizio—ultimo doge, aveva rotto le sue sponsalizie col mare. Un Manin—cittadino—ritentò di stringere il nodo siccome i tempi mutati a lui il consentivano!

Ma, quantunque il governo austriaco — senza pur desiarlo — fosse stato il pronubo operoso di tali nozze ripristinate, le autorità esautorate che da esso emanavano non dovevano assistervi. E il conte Luigi Palffy, governatore già delle venete province, si dimetteva dal suo incarico, affidandolo al conte Ferdinando Zichy, comandante della città e fortezza; il quale, penetrato dei casi che se gli volgevano avversi, firmava i seguenti capitoli al podestà e agli assessori municipali di Venezia:

«I. Cessa in questo momento il governo civile e militare, sì di terra che di mare, che viene rimesso nelle mani del governo provvisorio che va ad istituirsi e che istantaneamente viene assunto dai sottoscritti cittadini.