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Incoerenza de’ due svariati poteri!.... La stessa persona che come principe aveva scritto allo imperatore d’Austria, domandandogli lo affrancamento d’Italia, come pontefice pubblicava la enciclica in cui — grazie allo abborrimento che ha la Chiesa dal sangue ed alla eguale affezione ch’egli doveva a tutte genti cristiane — l'abbracciava i suoi figli ne’ nemici eterni della nostra nazionalità, e noi rigettava come uomini traviati e crudeli.

Una siffatta dualità fecesi sempre più mostruosa e nociva. Pio IX — che appariva ai popoli della terra l’angiolo della carità e dell’amore, il Messia redivivo delle libertà umane e il terrore dei despoti — bruciò le bianche ali, che gl’inneggiatori e gl’illusi gli avean prodigato, sulle fiamme delle fratricide discordie e ruinò da un’altezza cui a nessuno era dato di giungere. I vincoli stretti dallo affetto e dalla conoscenza furono rotti. Le grida festose si cangiarono in grida di sprezzo. Le legioni armate, le navi, le piazze, le vie che s’intitolavano da lui, novellamente si battezzarono. L’uomo del miracolo venne reputato l’uomo della sventura. E lo fu!

La Italia è paese eminentemente cattolico; ma, da ciò non deriva che i suoi abitatori debbano essere divisi in tante frazioni, nè stimmatizzati da una intollerante teocrazia, la quale gli dichiara atei e gli separa dalla Chiesa quantunque volte intendano muoversi per togliersi le pastoie che gl’inceppano, od imprendano opere di fraterno amore; nè schiavi dello straniero, il quale si fa tenero della maestà pontificia sol quando più a lui interessa per ingerirsi ne’ fatti nostri e aver agio di calpestarci e mantenerci popolo d’Iloti.

La Italia tende a costituirsi in nazione, e i suoi figli ornai sanno di chi debbano temere, in cui sperare. Ne’ tempi dei quali or tengo proposito, essi, fiduciosi nel bene, stimavano col grido di Pio IX sulle labbra e nel cuore dar compimento al miracolo che tutti i nostri grandi attesero senza vederlo mai, la cacciata d’oltr’Alpi dello straniero e lo stabilimento della italiana nazionalità. Quel grido echeggiante co’ segni della più alta venerazione nell’Europa ammirata era come un dardo avvelenato, confitto nel cuore della potenza Austriaca e della curia romana. Il Piemonte aveva un anno innanzi riconquistato la sua indipendenza col permettere la circolazione di alcuni liberi scritti e di una medaglia — avente nell’esergo il lione di Savoia che straziava colle sue zanne poderose un’aquila bicefala — e collo attivare una nuova tariffa doganale sui prodotti germanici. Il papato, non più pupillo in faccia alle sperante dell’universale, finse anch’esso di rompere i lacci del secolar vassallaggio. Cotali ed altri siffatti avvenimenti avevano impensierite il principe di Metternich sui destini di quell’edifizio da lui rizzato con tanti sudori sul sangue e sulle lacrime de’ popoli; egli su quel torno scriveva al Dietrichstein queste logiche parole: “Sotto la bandiera delle riforme amministrative i faziosi cercano consumare un’opera che non potrebbe rimanersi circoscritta nei limiti dello Stato della Chiesa, nè in quelli d’alcuno degli Stati che nel loro insieme compongono la Penisola Italiana. Le sette tendono a confondere questi Stati in un solo corpo politico; o per lo meno in una confederazione di Stati, posta sotto la condotta d’un potere centrale