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scientifici. Infrattanto, l’abate Graziosi suo maestro e il P. Gioacchino Ventura, suo condiscepolo — due tra i più ragguardevoli uomini del clero cattolico, fervidi zelatori del bene della Chiesa e delle popolari franchile — a lui soccorrevano col lume dello intelletto e colla sapienza della parola.
Ma, gl’Ignaziani, i retrogradi, gli amici dello straniero i funzionarii sprofondati dalle riforme non potevano starsi colle mani alla cintola, e soffiarono sullo incendio delle civili contese in Bologna, in Cesena in Faenza. La sanguinosa lotta fu breve; i tristi, parve, si raumiliassero: inerti però non rimasero mai. Ed ecco altro motivo di rancore per essi, altro di gratitudine, di entusiasmo pe’ buoni; chè il papa, consigliato dai suoi benevoli ad addentrarsi sempre più nel sistema adottato pel miglioramento della pubblica cosa, faceva emanare dal cardinal Gizzi una circolare ai governanti le province, perchè proponessero il nome de’ più chiari per ingegno e per virtù all’oggetto di riunirli a Roma in un’Assemblea di Notabili.
Or, cotesta misura maturata dalla necessità, se addoppiava lo amore dei più per colui che ordinavala, nuoceva però potentemente al principio assoluto, immutabile della Corte Romana. Questa — riguardo il poter temporale de’ Papi — non si ha altro domma che il beneplacito del principe, informato della potestà spirituale e sempre intento a favorire la Chiesa a discapito de’ diritti naturali dei popoli. Essa pretende che lo Eletto dai suoi voti intralmente trasmetta i possedimenti consegnatigli dal cardinal camerlengo il dì della incoronazione. Che tutto ch’ei prodiga in fatto di libertà temporali sia revocabile all’uopo, onde restituire al suo successore quella pienezza di civile comando, senza cui, sembrale, che l’un de’ due poteri non possa sussistere. E che, accerchiato da divine apparenze e confondendo in sua mano la potestà sacra e la profana, ne’ politici moti gitti sul capo di que’ che richieggono popolaresche istituzioni la taccia di sacrileghi uomini e le temute folgori del Vaticano.
Pio IX stimava poter conciliare il principe italiano col pontefice universale; voleva farsi credere il padre amoroso de’ sudditi suoi, sedere a scranna coi re e palesarsi in un tempo il Vicario di Gesù salvatore ai popoli della terra; immaginava che le concedute riforme — le quali erano nelle sole apparenze e non negli atti di quei che rappresentavano il governo nell’interno e nell’estero— bastassero a far felici gli abitanti dello Stato Romano. Ei non sapeva che la libertà domanda guarentigie ed in ispecial modo laddove il magistrato supremo di un reggimento procede dalla elezione di uomini pregiudicati e devoti a dispotica autorità. Nè pur sospettava quanto fosse periglioso e difficile lo abiurare ai principii e rimettersi sulla via del vecchio assolutismo dinanzi a gente risorta a libera vita, che in lui idoleggiava soltanto la bandiera della unità e dell’italiano riscatto.
Il principe udì il linguaggio della insidia e della paura. Accordò a malincuore le armi cittadine e lo Statuto fondamentale; rese laico malgrado suo il ministeri e parte del governo nelle province; ma, altamente riprovò ed interdisse con una nota pontificale la guerra già accesa tra gli stranieri e i popoli italiani, che colle schiere regolari e avventicce volevano rivendicare la indipendenza della patria.