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principe, perchè negligente della pubblica cosa; fatto crudele dalla paura; dedito intero al godimento di quelle temporali felicità che a lui vecchio una robusta costituzione concedeva fruire, Gregorio XVI moriva in Roma a’ dì 9 di giugno del 1846, senza alcuno rimpianto, come colui che lasciava un triste compito della sua gestione principesca e la infruttifera fama d’uomo erudito nelle morali e teologiche dottrine. I ricordi del suo regno trilustre erano lo erario consunto; il debito pubblico accresciuto; le imposte addoppiate; lo esiglio dei più incliti cittadini; lo eccidio o la detenzione dei più forti; le corti marziali; lo arbitrio invece della legge; l’anarchia legale in ogni ramo della pubblica amministrazione. Luttuoso corredo di mali gittato sul capo a tre milioni d’uomini in faccia all’Europa civile.
Già parecchi statisti italiani — quali più, quali meno apertamente, però tutti collo stesso proposito — avevano parlato della incompatibilità di un reggimento siffatto in mezzo ai lumi del nostro secolo. Alcuni invocavano un rimedio radicale, pronto, efficace; le medicine forti di Macchiavello. Altri mostravano la via che il governo teocratico dovesse tenere a prò della religione in un tempo e della libertà dei soggetti. Il Primato co’suoi Prolegomeni di Vincenzo Gioberti aveva guadagnato l’animo di tutti ed infiltrato sino nel clero la febbre per le proposte riforme. Ond’è che, morto il pontefice, i Municipii dello Stato Romano — quelli particolarmente delle Legazioni — indirizzavano allo Eletto a succedergli il quadro desolante delle miserie del popolo ed i mezzi i più acconci per renderlo prosperoso e felice.
Cinquantuno cardinali, riunitisi nel Quirinale, nominavano il nuovo papa dopo una breve dimora in Conclave. I tempi correvano minacciosi e difficili ed ogni lentezza poteva essere di molto pregiudizio alla potenza delle somme chiavi. II conte Giovanni Maria Mastai-Ferretti, cardinale e vescovo d’Imola, raccolti i maggiori suffragi del Sacro - Collegio, saliva sulla sedia apostolica col nome di Pio IX. I Romani rimasero freddi spettatori dell’accaduto. Taluno sperava. Nessuna novità in sulle prime, tranne la scarcerazione di molti romagnuoli sostenuti lungo lo interregno per cautele di polizia, e la dimessione richiesta da sei cardinali — il Lambruschini, il Macchi, il Mattei, lo Amat, il Gizzi e il Bernetti — i quali, chiamati dal nuovo pontefice al reggimento provvisorio della cosa pubblica in sullo scorcio del giugno, indi a poco se ne ritraevano per divergenza di opinioni su talune riforme da lui designate. Udito perciò lo avviso de’suoi aderenti e quello degli ambasciatori stranieri, scrutinando i desiderii del popolo che sono spesso la volontà di Dio, agì a seconda del cuore. E alle ore sette della sera del 18 luglio facea pubblicare sui canti della città il decreto d’amnistia a benefizio degli esuli e degl’imprigionati per motivi politici. Le genti, oppresse sino a quel punto, interpretarono le umane parole di quell’atto nel vero suo senso, e quei che il compiva rimeritarono di feste e di ovazioni di grande riconoscenza.
Il deputato dall’Onnipotente a fornire alla Italia le più vaste speranze e i più grandi dolori, era nato in Sinigaglia — piccola terra della Marca d’Ancona sul mare Adriatico— a’ dì 13 maggio del 1792. Venuto di famiglia patrizia, agiata