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signori. — La dotta Bologna vedeva chiusa la famosa sua scuola d’onde era escito cotanto lume; e pur forti spiriti ancora albergava, cui era delitto di carcere, di esiglio e di morte l’oprare. — Roma, museo dell’antica magnificenza dal colosso pagano al colosso cristiano, contava gli evirati suoi giorni sul calendario gregoriano, satirizzando con ridevoli pasquinate le processioni, il frequente succedersi de’ suoi re-sacerdoti, le condanne de’ tribunali militari e del Santo-Ufficio. — Genova, assorta ne’ lucrosi negozi, avvolgevasi in una nube di cifre algebriche; il ricordo de’ dominati mari la crucciava spesso e la faceva perciò temer da un governo che i trattati di Vienna avevanle imposto. — Venezia, la città dello incanto, retta un dì dal valore e dal senno di un astuto patriziato; quindi, al cangiarsi di una grande fortuna, stretta dall’avaro artiglio dell’aquila Austriaca, languiva oppressa dai suoi costumi senz’altra ricchezza, tranne quella d’illustri nomi e di titoli che la facevano degna della compassione europea. — La città di Giannone e di Vico, la patria di Giovanni da Procida e di Campanella, abitate da plebe volubile, nelle cui vene ogni razza di dominatori ha inoculato i suoi vizi, parevano nate a patir l’onta della propria schiavitù. Ogni ardito conquistatore, apparso con temeraria fiducia su quel magico paradiso della natura, fu certo di esservi accolto, aggradito e piaggiato; onde, tutti vi convennero dalla vana gente di Francia alla superba di Spagna sino alla famiglia Borbonica che tuttor v’ha dominio. Spesso, succedendo alla vergogna il furore, lo spregio rese arditi gli oppressi, e la terra de’ sotterranei fuochi dava vita a cospirazioni tenebrose ed a feroci necessità di sangue. Fede non certa ed instabile al pari del suolo!

Dalle Alpi adunque mal viete alla estrema Sicilia viveva un popolo dislocato — nella sua unità di religione, di costumi, di linguaggio, di tendenze — da dieci frontiere, taglieggiato da altrettanti separati governi l’uno all’altro straniero, stretti però tutti ad un patto, quello di soffocare in Italia ogni qual si fosse germe di libertà. Dagl’infranti monumenti però, eretti dal genio inemulato degli avi — reliquie di non inutile iattanza a’ nepoti — udivasi una voce che diceva


gloria e vergogna


e metteva ne’ cuori intiepiditi un certo fomite di virtù a far vacillare talvolta le corone sulle fronti altere dei re, e tal’altra inchinarle dinanzi ai bisogni intellettuali, morali e materiali del popolo. Le scienze, le lettere, le arti davano tratto tratto qualche nome famoso alle pagine della storia contemporanea, e ciò addimostrava che il sacro nido della civiltà non erasi affatto isterilito e che un potente sole pioveva ancora i suoi benefici influssi sulle menti dei pensatori e degli artefici del bello. Ma, i più arditi in fra questi erano forzati a migrare in estranea terra per politico bando, o per sottrarsi dallo sdegno, che mai non perdona, della paurosa e tremenda Inquisizione. La luce del vero la doveva esser muta pei più. Le mal redatte gazzette governative impedivano a tutt’uomo che quell’elemento di libera vita penetrasse nella breve sfera, la quale di menzognero pabolo esse avevansi il carico di alimentare. Laonde, spesso avveniva che gl’Italiani di uno Stato non sapessero novelle di un movimento