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un oggetto di erudizione, una miseria, una incapacità incarnata; e se, volgendo lo sguardo sulla civil società, vedrò ancora talvolta ascoltata la voce potente della natura, ed onorata in qualche parte la maternità, dovrò esclamare: a cattive leggi, uomini migliori!

Se non che il disdegno, che i codici mostrano per la donna, non è che uno dei corollarii di quel principio così lucidamente impugnato dal Beccaria, che cioè, quel legislatore che considera la società come una associazione di famiglie, non deve necessariamente riconoscere a membri attivi che i capi di esse e lasciar gli altri tutti nell’ombra ed in balìa dei capo, sopprimendo così ogni diritto ingenito, sul quale si eleva prepotente il diritto parziale.





Se la legge tratta così la donna che, pel venerando carattere materno, si presenta all’uomo coll’autorità della causa sopra lo effetto suo; non è più a meravigliare che affatto la cancelli dal novero delle unità nei rapporti coniugali.

Il marito legale è per la donna la evirazione intellettuale, la minorità perpetua, lo annichilamento della sua personalità.

Infatti, se la donna è qualche cosa davanti alla legge, lo è quando è maggiore e libera; che, sebbene il legislatore tiri giù per conto suo dei tagli cesarei attraverso i diritti competenti a ciascun membro della civil società, la lascia almeno padrona di sè stessa, e le suppone la capacità di amministrarsi. Ma si marita essa? Da quel momento ella diviene incapace e minore, perde col suo nome anche la proprietà di sè medesima, e vi sfido a trovarmi un atto legale ch’ella possa fare senza il consenso del marito. Ma lasciam parlare la legge.