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tuna, impotente pel genere infimo del lavoro attualmente concessole, a sostenersi in faccia alle molteplici esigenze della vita civile, trovasi trascinata da fatale necessità al distruttor mercimonio delle sue membra infelici.

Che se parlasi della donna agiata, la cui virtù è dalla educazione fortificata, se avvenga che un rovescio di fortuna la colpisca, chi non freme di vederla precipitare, senza via di mezzo, dalla splendida atmosfera d’una vita irradiata dalla luce dell’intelligenza sotto la sferza d’un’indefessa manuale fatica, che, mentre lo spirito generoso le preme ed angoscia, tanto pur non le acquista da calmare le smanie del dente digiuno?

Invero è questo tale problema che reclama potentemente d’essere avvertito dai governi ben intenzionati, ai quali premer debbono il cuore le piaghe sociali, e che la mente si travagliano indefessamente nella ricerca di un rimedio e di un riparo al degeneramento fisico e morale della specie; ed invero il bisogno nella donna non esprime nullameno che questo.

Là dove la donna ha duopo dell’uomo per vivere, la suà schiavitù è ben altrimenti dura, che dove questa non trova la sua ragione che nella forza del muscolo. La forza può distruggere l’opera della forza, ma la sferza del bisogno è tremenda; ella doma la più fiera natura, ella espugna la rôcca più salda, e dalla lotta deplorevole e funesta non ne escono che due demoralizzati ed una derelitta posterità.

Se non che, dovendo io tornare sull’argomento del lavoro femminile, mi basterà per ora di avvertire le mie colte lettrici, che non si lascino sì leggermente sedurre dalla mania di classificare gli esseri, ed assegnar loro delle funzioni prima di aver ben studiata la natura; poiché gli è per lo appunto uno sterminio di classificazioni