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cuore di quei popolani che cominciano a leggere, e scriver benino.
«Dimmi qual libro leggi; io ti dirò che impari».
L’è brutta cosaccia, ma perciò non men vera! Appena una giovinetta è capace di leggere, ed intendere, subito te la vedi con un romanzo (e Dio sa quale) in mano. Come un operaio comincia a uscir dal guscio, ve’ che presto corre in cerca dei Regali di Francia, e di qualche cosa di simile.
Ma Dio buono! E perchè avvelenarsi prima, diremmo, di cominciar a vivere la vita dell’intelletto?
Non mancano buoni libri, e specialmente quelli contenenti l’ammaestramento di altri tempi, e di altri uomini.
Tra questi, possiamo ben annoverare a caratteri distinti il Dante popolare del cav. Domenico Jaccarino di Napoli.
Il Divino poeta, ridotto a lingua Napolitana è un lavoro degno dei nostri tempi — è un gran libro pel popolo.
Ivi la storia — la causa principale dei nostri guai — la ragione che combatte la prepotenza — l’esilio che purifica l’anima — la virtù dell’amicizia che sfida il veleno ed il pugnale — la schietta fisonomia italiana, ivi tutto è bello.
Il caro Jaccarino merita d’essere incoraggiato: il suo libro merita d’essere diffuso. Può avvantaggiarsene il popolo, e addivenir migliore: come potrebbero approfittarne gl’intelligenti e bandire per sempre la discordia dalla sacra terra italiana.
(La Capitanata di Foggia. — Anno IV. num. 6. — 20 gennaio 1870.)
N.° 55.
I giornali badino al loro decoro in lodare il Dante tradotto in dialetto, sia napoletano, milanesie, o veneziano. Ma non è già un dileggio annunziare che il padre della lingua italiana venga gittato, se ciò potesse essere, nell’abbiezione di un dialetto? Ciò mi ricorda il Codice civile tradotto in versi!
(L’Omnibus di Napoli. — Anno 38, num. 10. — 22 gennaio 1870.)