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322 | l'ombra del passato |
Pare una musica vecchia suonata da uno strumento nuovo, ancora stridulo e scordato. Poi risuona ancora la voce dell’uomo; quella voce che par venga di lontano, che par la voce stessa delle cose, la vibrazione dell’aria, la musica degli strumenti da lavoro.
E mentre negli atrî, nei campi, nelle case ferve il lavoro, nelle strade polverose si vedono gruppi e file di bimbi piccolini, vestiti di rosso o di nero, con le faccine tinte dal succo dell’uva: il paese pare popolato solo da questi diavoletti rossi e neri dal visetto violaceo; le case e le strade ne son piene, come i nidi a primavera son pieni di uccellini.
Lungo i muri è stesa ad asciugare la saggina gialla e rossa, le cui cime sembrano intinte nel sangue.
Nei crepuscoli rossi, la luna che sorge grande e vermiglia dai vapori dell’orizzonte violaceo, par che lasci tutta la sua tinta sanguigna sulle distese melanconiche della saggina non ancora mietuta. Poi la luna sale, sale, gialla e lucida sul cielo vaporoso. La vegetazione è immobile. Solo gli steli dell’avena selvatica, in riva al fiume, tra i banchi di sabbia e i boschetti di salici, attraverso i quali brilla ancora il cielo infocato, tremano lievemente e si curvano gli uni sugli altri come per comunicarsi il segreto di tutto quel silenzio, di quell’immobilità, di quei vaghi splendori crepuscolari.
E in alto, nel bosco ceduo, solo un pioppo si muove, come per forza propria, protestando contro