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momento all’altro ordine di chiuderlo. Ma un fatto accaduto quella sera dissipò le sue inquietudini.

Il locale aveva due ingressi: uno grande sulla strada e una porticina che dava sul prato e serviva solo per gli «artisti».

Dall’arco del portone sulla strada si scorgeva l’interno del teatro. Il bigiiettario stava seduto davanti a un tavolino, nell’angolo dietro il portone, e lasciò passar Golo e le donne che lo seguivano. La folla rumoreggiava, impaziente. E fra l’ondulare grigio e nero dei cappelli di feltro, si scorgeva qualche graziosa testa femminile, i cui capelli rossi o castanei avevano lievi riflessi d’oro.

Sulle pareti sporche serpeggiavano bizzarre decorazioni di foglie di vite, nastri, larghe striscie di carta dorata.

Pochi lumi a petrolio illuminavano quella confusione di figure e di cose: grandi ombre vagavano sul soffitto, e in fondo al quadro il piccolo sipario di grossa tela grigiastra pareva una vela latina ondulante alla brezza.

Mentre Golo conduce va le donne ai loro posti, Adone era corso a vestirsi. Gli «artisti» già pronti borbottavano per il suo ritardo. L’ex-comico, vestito da tiranno, disse con boria:

— Il pubblico rumoreggia. Non bisogna stancarlo; se no non rispondo dell’esito!

Celeste finiva di vestirsi, dietro un lenzuolo che funzionava da paravento.

— Signor Adone? — cominciò a gridare. — Mi sente? Faccia presto! So una cosa; so una cosa!