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mezzo, e sul tavolo un lume a petrolio, e alcuni oggettini di vetro e di marmo. Sulla parete, sopra il camino, stava il ritratto di Mazzini, circondato da una ghirlanda di fotografie sbiadite: nella luce verdastra della stanzetta umida, quella figura d’uomo magro e tetro, e le immagini che lo circondavano, pallide, cadaveriche, davano l’idea di una compagnia di morti.

Da un uscio socchiuso veniva una cantilena religiosa, d’una tristezza profonda, cantata da duo voci, una grossa, maschile, l’altra stanca e velata. Dovevano essere le voci della cestaja e della vecchia Suppèi.

— Andiamo, — gridò Marco, tirando Adone per la giacca.

— Andiamo dentro, — propose Adone. — Si passa dall’altra parte?

— Io non vengo, — disse Marco allora, abbassando la voce. — La mamma mi ha proibito d’andarci, perchè quella donna, quella cestaja, ha un male che attacca.

Adone allora non insistè. Soltanto pensò che era stato più d’un’ora in compagnia della cestaja e questa non le aveva attaccato il suo male.

Un altro giorno egli ritornò a Casale, e in casa di Marco trovò la famosa zia Barberina, alla quale pensava spesso. Ella aveva davvero un viso da uomo, con un gran naso rosso e due occhietti turchini vivacissimi: in testa aveva un cappello di feltro grigiastro, e in mano un bastone, attaccato al polso con una correggia. Era molto arrabbiata: