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cornicione sul quale cresceva l’euforbia, quella coperta da letto, logora e lucida, di antico damasco verdognolo, che pendeva melanconicamente da un balconcino del piano superiore, avevano qualche cosa di triste e di fiero, ed anche di misterioso, e richiamavano l’ammirazione dei paesani abituati a considerare la famiglia Decherchi come la più antica e nobile del paese.

Don Simone rassomigliava alla sua casa: vestiva in borghese, ma conservava la berretta sarda, e i bottoni d’oro al collo della camicia; anch’egli cadente e fiero, alto e curvo, sdentato e con gli occhi neri scintillanti. I capelli folti, candidissimi, la barba corta e bianca, davano al suo viso olivastro, dal naso grande e i pomelli sporgenti, un risalto caratteristico.

E ziu Cosimu Damianu, che conviveva coi Decherchi, rassomigliava a don Simone. La stessa statura, gli stessi capelli bianchi, gli stessi lineamenti, la stessa voce; ma un non so che di rozzo, di primitivo, e il costume paesano, rivelavano in lui il vecchio plebeo, il lavoratore umile e paziente, sul quale la lunga convivenza con un uomo superiore come don Simone aveva operato una specie di suggestione fisica e morale.

— Dieci giorni passarono e il ragazzo non tornò, — continuava a raccontare ziu Cosimu. — Allora il padre si mise in viaggio, andò fino ad Ozieri, andò fino alla Gallura. Incontrò un pastore e gli domandò: — Per caso, hai veduto un ragazzo con gli occhi celesti e un neo sulla fronte? — Perdio,