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l’edera | 87 |
chio arazzo, si fermò e sollevò la testa fine e nervosa.
Un sentiero s’apriva, al di là di un muricciuolo a secco, a destra dello stradale polveroso e mal tenuto; ma due macchie di rovi rosseggianti di more acerbe ne chiudevano quasi completamente il varco.
— Tu hai ragione, — disse a voce alta Paulu, accarezzando la testa dell’intelligente bestia. — È meglio passare di qui. Il sentiero è brutto, ma c’è meno polvere e più ombra.
E lasciò andare il cavallo che passò cautamente fra le due macchie.
Il sentiero, mal tracciato, serpeggiava lungo i fianchi della grande vallata. La luce rosea-aranciata dell’aurora illuminava dolcemente il passaggio, che pareva un paesaggio primordiale ancora vergine di orme umane. La valle era tutta scavata nel granito; muraglie di roccie, edifizi strani, colonne naturali, cumuli di pietre che sembravano monumenti preistorici, sorgevano qua e là, resi più pittoreschi dal verde delle macchie di cui erano circondati e inghirlandati. Il letto di un torrente, di granito, d’un grigio chiarissimo, solcava la profondità verdognola della valle, e gli oleandri fioriti che crescevano lungo la riva, fra le roccie levigate, parevano piantati entro ciclopici vasi di pietra. L’alloro dalle foglie lucide, il corbezzolo, il mirto dal frutto nero, il ginepro fragrante, le macchie ancora fresche della rosa peonia, e le piante più rare della flora sarda, rivestivano tutta la valle, circondavano le roccie, si arrampicavano