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l’edera 239


L’altro aveva fretta; non le rispose, ma prese il lume, uscì e chiuse l’uscio a chiave. Ella ricadde seduta sulla cassa panca e non si mosse più: l’odore del basilico, il canto del grillo, lo scintillìo della stella penetravano per il balcone aperto, e dopo un momento ella ebbe l’impressione di trovarsi ancora seduta sullo scalino della porta che dava sull’orto di don Simone... E la dolcezza, la tristezza, il desiderio di tutte le cose perdute la riassalirono.

— Chi mi impedisce di tornare ? Se fossi entrata! Perchè, perchè non devo tornare? Chi me lo proibisce? Prete Virdis che mi ha chiuso a chiave? Perchè non devo tornare?

Il desiderio s’acuiva: ella era stanca, aveva sonno, aveva la febbre. Era tempo di ritornare a casa, di ricoricarsi nel suo lettuccio. Aveva camminato tanto, nell’ombra, fra le pietre, fra le spine: era tempo di riposarsi... Ecco, ella chiude gli occhi, si assopisce. Una figura balza subito davanti a lei: è zia Paula, la cugina borbottona di prete Virdis.

— Chi sei! Che fai qui? Una donna qui? Ah, quel Micheli sta diventando matto davvero: matto del tutto, perchè un poco lo è sempre stato. Vattene.

— Sono Annesa, zia Paula mia...

— Che zia Paula o non zia Paula! Vattene; sono stufa dei malanni degli altri! Ne ho abbastanza dei miei...

Annesa si alza, se ne va. Cammina, cammina, per le straducole buje, arriva , davanti alla casa