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— Puoi pregare anche là, nella capanna. Dio ti sentirà egualmente. E tu non hai mangiato, pili brunda.

Nel sentirsi chiamare col suo nomignolo, ella provò un impeto di gioia: zio Castigu non l’aveva più chiamata così, durante tutti quei giorni di terrore.

Tutto era dunque passato? Era possibile? Non era un sogno? Per convincersene ella si alzò, dimenticò le sue preghiere, diede retta al vecchio che insisteva:

— Andiamo, andiamo!

Uscirono. La notte era chiara, vivida di stelle: l’orizzonte sembrava vicino, appena dietro le linee nere dei boschi e i profili delle roccie: le pecore di zio Castigu pascolavano nascoste fra le macchie in fondo alla radura, e il tintinnìo cadenzato dei loro campanacci pareva una musica misteriosa, quasi magica, un coro di vocine tremule sgorganti dalle pietre, dai tronchi, dai cespugli.

Molte stelle filanti attraversavano il cielo biancastro, e zio Castigu, al quale non sfuggiva mai nessun fenomeno celeste, disse guardando in alto:

— Pare che le stelle grandi piangano, stanotte. Guarda quante lagrime!

Annesa sollevò il viso. Anche lei piangeva. Ricordava la sera della festa di San Basilio, i razzi che attraversavano il cielo scolorito, al di là del cortile silenzioso. Quindici giorni erano trascorsi: quindici giorni lunghi e terribili come anni di peste e di carestia. Ora tutto era finito: e tutto doveva ancora incominciare.