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vivere coi poveri pastori della montagna. Nè quadri, nè statue, ornavano le pareti: molti topi, invece, fuggirono davanti a zio Castigu, quando egli aprì la porta; e prete Virdis, che aveva una infantile paura dei più innocui animaletti, si spaventò e parve provar più orrore per quel piccolo esercito fuggente che per i peccati di Annesa.

— Non abbia timore, — disse zio Castigu. — Sono topi selvaggi. Si figuri, prete Virdis mio, l’altro giorno lasciai qui una bisaccia colma di pane e di formaggio, ed essi rosicchiarono la bisaccia, ma non toccarono nè il pane nè il formaggio. Si vede che non ne avevano veduto mai.

Prete Virdis tuttavia procedè cauto, e si lasciò vestire dal pastore che trovò, in fondo a una cassa posta dietro l’altare, un camice e una pianeta rosicchiata appunto dai topi selvaggi. Mentre per accendere l’unico cero dell’altare zio Castigu adoprava l’acciarino e l’esca, Annesa vide il prete guardarsi attorno inquieto.

— Non abbia timore, — disse il pastore, serio serio: — suonerò il campanello per farli scappare.

La messa cominciò: niente di più pittoresco e comico di quel grosso ufficiante dalla pianeta bucata, e del vecchio preistorico che assisteva la messa suonando ripetutamente il campanello come per far scappare un popolo di spiriti maligni.

In fondo alla chiesetta deserta, sulle cui pareti la polvere e i fili dei ragni diventavano sempre più rosei e dorati al riflesso dell’aurora, Annesa mormorava brani di preghiere dimenticate, e di tanto