Pagina:L'edera (romanzo).djvu/204

202 l’edera


— S’egli fosse stato così! — pensava la disgraziata. — E ora che dirà zia Franchisca? Ella piangerà d’orrore ricordandosi d’aver baciato la mia mano!



Più tardi, arsa dalla sete, ella bevette un po’ di latte, e incoraggiata dal silenzio profondo del luogo sporse la testa fuori dell’apertura e guardò a lungo sul precipizio. Era un giorno velato e caldo: le montagne calcaree della costa sembravano vicine; nella grande vallata si distingueva nettamente ogni strada, ogni macchia, ogni filo d’acqua, ma sul versante della montagna ondulavano ombre e vapori, simili a grandi veli distesi sulle roccie; lo strido lamentoso che ella aveva udito fin dall’alba saliva ora più acuto e distinto, e pareva un sibilo umano.

Ed ella cominciava a crederlo veramente il grido di qualche pastore, quando distinse due nibbi che avevano fatto il nido fra le roccie. I due uccelli si inseguivano, volando d’albero in albero, giù in fondo al burrone; ma d’un tratto il nibbio maschio volò in alto, fece come un giro di esplorazione, ripiombò giù e riprese a svolazzare intorno alla compagna che lo richiamava col suo strido lamentoso, d’una tenerezza selvaggia.