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190 | l’edera |
pareva d’essere inseguita: ma non udì nulla, non vide nessuno. La luna, limpidissima, illuminava le casette nere e grigie che parevano fatte di carbone e di cenere: il vasto orizzonte, tutto d’un azzurro latteo, sembrava uno sfondo di mare lontano. Le ombre delle roccie e dei cespugli si disegnavano sul terreno giallognolo, tutto appariva dolce e misterioso. Ella si rassicurò.
Le parve che la notte, la luna, le ombre, il silenzio le fossero amici: tutte le cose tristi ed equivoche oramai le davano coraggio, perchè tutto era triste ed equivoco nella sua anima. Cammina, cammina: ella cominciò la salita dipartendosi dal punto preciso dove era morto il mendicante, suo primo compagno di viaggio, che l’aveva condotta là, in quell’angolo di mondo, come il vento porta il seme sull’orlo dell’abisso: la fatalità continuava ad incalzarla, un vento di morte la spingeva. Avanti, avanti: ella andava e non sapeva dove sarebbe giunta, come non sapeva donde era venuta.
Su, su, di pietra in pietra, di macchia in macchia. Qua e là brillavano, tristi e glauche fra i giunchi neri, larghe e rotonde chiazze d’acqua che parevano gli occhi melanconici della montagna non ancora addormentata. A un tratto il sentiero s’insinuò tra le felci e i rovi che coprivano i fianchi del monte, poi fra macchie di ginepro, poi nel bosco e fra le roccie. La luna penetrava qua e là fra gli alberi altissimi; ma spesso le roccie la nascondevano, e l’ombra s’addensava sul sentiero.