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14 | l’edera |
Annesa mise il treppiede nero sul fuoco e mentre donna Rachele andava nella dispensa per riempire d’olio la padella, una bambina di sei o sette anni, con una enorme testa coperta di radi capelli biondastri, s’affacciò alla porticina socchiusa dell’orto.
— Annesa, Annesa, vieni; di qui si vedono bene i razzi, — gridò con una vocina di vecchia sdentata.
— Rientra tu, piuttosto, Rosa: è tardi, ti morsicherà le gambe qualche lucertola...
— Non è vero, — riprese la vocina, un po’ tremula. — Vieni, Annesa, vieni...
— No, ti ho detto. Rientra. Ci sono anche le rane, lo sai bene...
La bambina entrò, s’avanzò paurosa fino alla tettoja. Un goffo vestitino rosso, guarnito di merletti gialli, rendeva più sgraziata la sua figurina deforme, e più brutto il suo visino scialbo di vecchietta senza denti, schiacciato dalla fronte idrocefala smisurata e sporgente.
— Siediti lì, — disse Annesa, — i razzi si vedono anche stando qui.
Qualche razzo, infatti, attraversava come un cordone d’oro il cielo pallido, e pareva volesse raggiunger la luna; poi ad un tratto scoppiava, dividendosi in mille scintille rosse, azzurre e violette.
Rosa, seduta su un carro sardo che stava in mezzo al cortile, fremeva di piacere e chinava la testa, temendo e sperando che quella pioggia meravigliosa cadesse su lei.
— Almeno una, di quelle scintille, — gridò, curvando la fronte enorme e stendendo la ma-