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l’edera 13

Tutto era giallognolo e come affumicato, in quella figura triste e cupa: e il petto peloso e ansante, che la camicia slacciata lasciava scoperto, e i capelli aruffati, la barba giallastra, le mani nodose, e tutte le membra, che si disegnavano scheletrite sotto il lenzuolo, avevano un brivido di angoscia.

Egli lo diceva sempre:

— Io vivo solo per tremare di dolore.

Ogni cosa gli dava fastidio, ed egli era di grande fastidio a tutti, e pareva che vivesse solo per far pesare la sua sofferenza sugli altri.

— Annesa, — gemette, mentre la donna si allontanava col bicchiere vuoto in mano, — chiudi la finestra. Non vedi quante zanzare? Così possano pungerti i diavoli, come mi pungono le zanzare.

Ma Annesa non rispose, non chiuse la finestra; tornò in cucina, depose il bicchiere accanto alla brocca, poi uscì nel cortile, ed accese il fuoco in un angolo sotto la tettoia. D’estate, perchè il calore ed il fumo non penetrassero nella camera ove giaceva il vecchio asmatico, ella cucinava fuori, in quell’angolo di tettoia trasformato in cucina.

Un pace triste regnava nel cortile lungo e stretto, in gran parte ingombrato da una catasta di legna da ardere. La luna nuova, che cadeva sul cielo ancora biancastro, al di là del muro sgretolato del cortile, illuminava l’angolo della tettoja.

S’udivano voci lontane, scoppi di razzi, e un suono di corno, rauco ed incerto, che tentava un motivo solenne:

Va, pensiero, sul l’ali dorate...