Pagina:L'edera (romanzo).djvu/142

140 l’edera

tile. La sua barba sfiorava la coperta, sotto la quale le sue vecchie membra si agitavano convulse.

La disgraziata non distingueva niente: capiva soltanto che il vecchio aveva paura di lei: ed anche lei, ora, aveva paura di lui.

— Domani egli mi denunzierà, — pensava, fissandolo con occhi non più umani. — Sono perduta. Mi denunzierà, e si farà portar via di qui, e tutto sarà finito. Ch’io sia perduta non importa, — pensò poi, con disperazione. — Ma gli altri no, gli altri no.

E un martello inesorabile picchiava e picchiava alle sue tempia, come ad una porta che bisognava sfondare.

— O lui o gli altri. O lui o gli altri.

Ma ella non poteva: non poteva. Le sue mani si rifiutavano all’opera orrenda. Tentò di placare il vecchio; gli si curvò sopra, gli parlò con frasi sconnesse; ma la sua voce era rauca, minacciosa, e pareva venir di lontano, da un mondo tenebroso popolato di esseri mostruosi, di demoni, di bestie parlanti.

Forse il vecchio, ripiegato su sè stesso, come curvo sul confine della vita e già partecipe ai misteri dell’eternità, sentiva che quella voce non era più una voce umana; forse non la sentiva neppure, e non dava ascolto che alla voce del suo terrore. Per quanto Annesa parlasse, egli non si muoveva, con le mani sempre intorno al collo e il viso sul lenzuolo.