Pagina:L'edera (romanzo).djvu/14

12 l’edera


La donna, che aveva avvicinato alla porta il canestro della farina, s’alzò, si scosse le vesti, s’avvicinò alla brocca dell’acqua e ne versò un bicchiere.

— Annesa, la porti o no quest’acqua? — ripeteva il vecchio asmatico, con voce quasi stridente.

Annesa entrò, s’avvicinò al lettuccio. Il vecchio bevette, la donna lo guardò. Mai figure umane s’erano rassomigliate meno di quei due.

Ella era piccola e sottile; pareva una bambina. La luce del lume dava un tono di bronzo dorato al suo viso olivastro e rotondo, del quale la fossetta del mento accresceva la grazia quasi infantile. Ma la bocca un po’ grande, dai denti bianchissimi, serrati, eguali, aveva una lieve espressione di beffa crudele. Gli occhi azzurri, invece, sotto le grandi palpebre livide, erano dolci e tristi. Qualche cosa di beffardo e di soave, un sorriso da vecchia cattiva e uno sguardo da bambina triste, erano in quel viso di serva taciturna e malaticcia, la cui testa si reclinava all’indietro, quasi abbandonandosi al peso d’una enorme treccia biondastra attortigliata sulla nuca. Il collo lungo e meno bruno del viso usciva nudo dalla camicia scollata: il corsetto paesano si chiudeva su un piccolo seno: e tutto era grazioso, agile, giovanile, attraente, in quella donna della quale soltanto le mani lunghe e scarne svelavano l’età matura.

La figura del vecchio asmatico ricordava invece qualche antico eremita moribondo in una caverna.

Il suo viso, raggrinzito da una sofferenza intensa, dava l’idea d’una maschera di cartapecora.