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l’edera | 133 |
gano era cessato: la luna saliva limpida sul cielo azzurro chiaro come un cristallo; i vetri delle finestre, il lastrico del cortile, le tegole della tettoia avevano un riflesso d’argento. E nel silenzio profondo non si udiva più neppure il canto dei grilli, nè la voce del rosignuolo che ogni notte cantava come in sogno, nel bosco in fondo all’orto.
La furia dell’uragano aveva spento anche la voce delle cose. Pareva che gli abitanti del villaggio, nero ed umido sotto la luna, fossero tutti scomparsi come i loro leggendari vicini del paese distrutto. Ma questo silenzio, questa morte di tutte le cose, invece di calmare Annesa la eccitarono ancora. Nessuno poteva spiarla, nessuno poteva vedere ciò che ella faceva. Il mondo esterno coi suoi ammonimenti e i suoi pericoli non esisteva più per lei: e nel suo mondo interno, tutto era di nuovo tenebre. L’ossessione la riprese, la ripiombò in uno stato di semi-incoscienza febbrile; ella però lottò ancora contro il cieco impulso che la guidava. Rientrò nella camera, uscì di nuovo nel cortile: andava e veniva come una spola, tessendo una trama spaventevole, una rete entro la quale ella sentiva instintivamente che sarebbe rimasta chiusa in modo orribile.
A lungo l’istinto della conservazione fu più forte della sua manìa di sacrifizio e a un tratto parve salvarla. Ella chiuse la porta, spense la candela, sedette sull’orlo del canapè e si curvò per levarsi le scarpe. Ma il vecchio sospirò e s’agitò, ed ella rimase un istante curva, ascoltando; poi, siccome egli