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l’edera | 11 |
— Zio, è ancora giorno, e si sta più freschi senza lume — ella rispose con la sua voce dolce e le parole lente. — Ora però accendo subito. Annesa, — disse poi, affacciandosi all’uscio di cucina, — che stacci ancora la farinai? Smetti, è tardi. E Rosa dov’è?
— Eccola lì, in cortile. — rispose una voce velata e quasi flebile. — Ora finisco.
Donna Rachele accese il lume, e lo depose sulla grande tavola di quercia che nereggiava in fondo alla stanza, tra l’uscio dell’andito e la finestra. E la vasta camera, alquanto bassa e affumicata, col soffitto di legno sostenuto da grosse travi, apparve ancora più triste alla luce giallognola del lume ad olio. Anche là dentro tutto era vecchio e cadente: ma il canapè antico, dalla stoffa lacerata, la tavola di quercia, il guardarobe tarlato, il guindalo, la cassapanca scolpita, e insomma tutti i mobili conservavano, nella loro miseria, nella loro vecchiaia, qualche cosa di nobile e distinto. Su un tettuccio, in fondo alla camera, stava seduto, appoggiato ai cuscini di cotonina a quadrati bianchi e rossi, un vecchio asmatico che respirava penosamente.
— Si sta freschi, sì, si sta freschi, — egli riprese a borbottare con voce ansante e dispettosa — ; potessi star fresco almeno! Annesa, figlia del demonio, se tu mi portassi almeno un po’ d’acqua!
— Annesa, porta un po’ d’acqua a zio Zua, — pregò donna Rachele, attraversando la cucina ancora più vasta e affumicata della camera.