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l’edera 123

se Annesa attraversava la camera quel gemito diventava simile a un ringhio.

Ella lavorava e taceva: rimise le stoviglie, le posate, spazzò la cucina e il cortile: poi andò alla fonte, con l’anfora sul capo, e si fermò a lungo davanti al paracarri, guardando le lontananze della valle. Sotto il cielo grigio solcato da nuvole quasi nere, d’un nero terreo, tutto appariva triste: la valle si sprofondava come un enorme precipizio, le roccie sembravano pronte a rovesciarsi le une sulle altre: il bosco della montagna, nero e immobile, si confondeva con le nuvole sempre più basse.

E Paulu non veniva. Annesa soffriva un terribile mal di capo: le pareva che l’anfora fosse una delle roccie che, nel suo capogiro, ella vedeva quasi muoversi e precipitare: e il tuono le risuonava entro la testa, con un rombo continuo. Stava per avviarsi di nuovo, quando vide Santus il pastore e altri tre uomini e un fanciullo avanzarsi dalla svolta dello stradale. Aveva la febbre come ella temeva, o il fanciullo che si avvicinava, preceduto da due vecchi e seguito dal padre e da un altro paesano, era veramente il figlio smarrito di Santus? La curiosità le fece per un po’ dimenticare il suo affanno: si tolse la brocca dal capo, la depose sul paracarri e attese. Il gruppo s’avvicinava: la voce di Santus, alta e allegra, arrivava sempre più distinta nel silenzio dello stradale solitario.

— Perdio, lo conduco subito dal brigadiere: poi se vuol scappare scappi pure e vada al diavolo...