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l’edera 111

come il cielo, si schiarisse, e che molti problemi si risolvessero.

— Che differenza c’è fra un’usuraia e una vedova come Zana? Nessuna. Ciò che vale l’una vale l’altra.

Zana entrava ed usciva. Gli servì una scatola di sardine, poi due uova, poi un piatto di fritto.

— Come, e tu dicevi che non avevi niente? Purchè dopo non mi porti un conto troppo grosso.

Zana lo guardava sorridente.

— Era il mio modesto desinare, don Paulu. Non si burli di me.

— Come! — egli disse, alzandosi. — Il tuo desinare? E tu, allora? Come farai?

— Non pensi a me, don Paulu.

Ma egli era già mezzo brillo, e stette un momento in piedi, comicamente mortificato per aver mangiato il pranzo di Zana. Ma poi rise e disse:

— Pensare che oggi a casa mia si dà un pranzo a sei poveri, e mia madre in persona deve servirli; sulla tavola stanno le nostre più belle stoviglie e le posate d’argento. Ed io sto qui a mangiare il pranzo della vedova!

— Sua madre deve servirli? È un voto? domandò Zana, avvicinandosi.

— No, è un lascito, o meglio un canone che grava su una nostra tanca.

Subito egli pensò che forse quel pranzo di poveri era l’ultimo che la sua santa madre serviva, e si rifece cupo, quasi livido in volto, e l’idea di farsi prestare i soldi dalla vedova tornò a insistergli nel pensiero.