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l’edera 99


Un coro d’una tristezza selvaggia indescrivibile risonava nella chiesetta: pareva un rombo lontano di tuono, attraversato da melanconici squilli di campane, da lamenti e singhiozzi infantili. Gli uomini, inginocchiati presso l’altare, intonavano una cantilena lamentosa e nostalgica, con voci basse, eguali, supplichevoli, che parevano venir di lontano; mentre le donne, sedute per terra in fondo alla chiesa, rispondevano con voce cupa e squillante: sopratutto la voce di una che pareva la direttrice del coro risuonava alta e metallica, come il rintocco d’una campana.

L’ombra s’addensava: i pochi ceri dell’altare illuminavano appena il gruppo degli uomini, che appariva nero e bianco in un chiaroscuro lugubre. Paulu non dimenticò mai quell’ora tragica della sua vita. Quel canto selvaggio e triste gli ricorava tutta la sua fanciullezza triste e selvaggia. Figure dimenticate gli passavano in mente, balzavano come dalla penombra della chiesetta e lo assalivano, lo stringevano, gli gridavano strane cose. Rivedeva certi profili di servi che erano stati lunghi anni in casa sua: udiva la sua balia, che pettinava la piccola Annesa e cantava una filastrocca:

Isperta, isperta, pilu,
pilu brundu che seda...1


Poi la voce taceva, la balia spariva: al suo posto sedeva il grosso prete Virdis, col fazzoletto in


  1. Pettina, pettina, capello,
    capello biondo come seta...