che tu avrai ammazzato quel tuo compagno, col quale tu venisti qui iersera ad albergare; e ora col fuggirli ti vorrai procacciare la salute. Allora mi parve vedere che la terra si aprisse, e lo inferno m’inghiottisse, e che Cerbero tutto affamato venisse verso me per volermi divorare, e tenni per certo, che la buona donna non avesse miga lasciato di sgozzarmi per misericordia ch’ella avesse avuto del fatto mio, ma per usarmi maggior crudeltà, mi avesse riservato alle forche. Per la qual cosa, ritornatomene in una camera, andava pensando meco stesso d’un modo d’ammazzarmi subitamente. E perchè la Fortuna non mi aveva preparate altre armi colle quali io potessi da me stesso por fine alla mia misera vita, se non quel letticciuolo dove io era dormito, io mi volsi verso di lui, e dissili: O letticciuolo mio carissimo, il quale hai meco insieme sopportate tante fatiche e se’ consapevole di tutto quello che è stato fatto in questa notte, e ’l qual solo io posso citar per testimon della mia innocenzia, tu sii quello che a me, che con prestezza vo’ morire, porga le armi salutari. E dicendo queste ultime parole, presa la fune, con che egli era ammagliato da un canto, l’attaccai a un travicello, che sotto alla finestra assai bene altetto sportava in fuore, e dall’altro acconcia con un cappio scorsoio lasciatola penzoloni, salii ’n sul letto; e rittomi in punta di piedi m’avvolsi quel cappio intorno al collo. Ma quando io mi tolsi di sotto il letto, dove io mi sosteneva con due piedi, acciocchè la fune, stringendomi per lo peso le canne della gola, mi soffocasse, ella, che era vecchia e fracida, si ruppe; e io, cadendo da molto alto, venni a rovinare sopra il corpo del mio carissimo compagno, il quale appunto si giaceva sotto di me. E in quello che io mi trovai per terra, quello ubbriaco del garzone dell’oste saltò in camera gridando accorruomo, e dicendo: Olà, dove se’ tu, che stanotte a mezza notte te ne volevi andare, ed or ti stai involto nelle lenzuola come un fegatello? E mentre che costui così gridava, io non so se per nostra ventura, o pur ch’egli