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libro decimo 255

lore, sicchè io avrei potuto prendere in ogni luogo la mia medicina.

E mentre che ’l travagliato legno della turbata mente mia ondeggiava in questo periglioso mare, egli era già arrivato il giorno delle mie odiose nozze: e la prima cosa, dopo un realissimo convito, così largamente, così dilicatamente, così ordinatamente, così pulitamente, così riccamente, così copiosamente, e all’improvvista servito, che egli non vi si disiderò cosa alcuna; per maggiore intertenimento de’ convitati, i quali erano tanti e tali, ch’io non ardisco di nominargli, egli fu ordinato un bellissimo e ornato ballo, il quale a me asino piacque tanto che egli mi levò una grandissima parte della ricevuta molestia di quelle nozze. Imperocchè quivi erano bellissimi giovani e fanciulle di età tenerissimi, di corpo bellissimi, di membra agilissimi, e ricchissimi di vestimenti; i quali, o vuoi balletti di che sorte sai addomandare, o vuoi di balli gagliardi, o quali balli si sieno, ballavano sì maravigliosamente, che tu non avresti voluto vedere altro: quelle volte preste, quei salti leggieri, quelle capriolette minute, quelle riprese nette, quelli scempi tardetti, quei doppi fugaci, quelle gravi continenze, quelle umili riverenze, e così a tempo, ch’e’ pareva che ogni loro movimento fusse degli instrumenti medesimi. Or finito che fu il bellissimo giuoco, mandato giù una vela, che era dirimpetto ad un grandissimo palco, e’ si diede ordine ad una commedia. Era in su quel palco un monte di legname, fatto a similitudine di quello inclito monte cantato sì altamente dall’antico Omero, il quale era ripieno di verdissimi prati, di fronzuti arbori, e di tutte le altre cose che suole in simili luoghi produrre la natura; nella cui sommità una artificiosa fonte sorgendo, del continovo assai larga copia di limpidissime acque versava: su per la schiena del monte alcune lascive caprette andavano or questo e or quello virgulto rodendo; e un giovane maestrevolmente abbigliato in quel pastoreccio abito, che già fu solito Paris per le selve portare, simulava d’esser guardiano