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L’ALLORO
Nella Tempéa valle
Il mesto Febo colse
Un molle ramuscello
Di quell’amato Lauro;
5In che sul patrio lido
Testè cambiossi Dafne,
E lo piantò dinanzi
Alle dorate porte
Del Delfico suo tempio.
10Rapidamente cresce
Il tenero germoglio,
E in breve divenuto
Un albero fronzuto,
Soave e placid’ombra
15A sè d’intorno sparge.
Rimiralo sovente
Apollo con isguardo
Pensosamente lieto,
Godendo nel vederlo
20Nell’alma sua bellezza.
Ma la diletta pianta
Comincia a venir meno.
«Con quanta gioia, disse
Apollo, io qui rimiro
25Le radunate turbe
Che da’ confin del mondo
Vengono al tempio mio
Per adornarlo a gara
Di prezïosi doni;
30Con tanto duolo, o pianta,
Io scorgo lo scemare
Della bellezza tua.
Deh! la ragion tu dimmi
Del tuo cangiar repente
35Fatale inaspettato?»
A cui rispose il Lauro:
«Febo, perdona: invidia
È che mi fa morire.
Io del tuo tempio veggo
40Le mura, le colonne,
Il sacro altare e l’urne,
Veggo i tuoi piedi avvolti
Di tulipani e gigli,
Di anemoni e di rose;
45In mente a me non venne
Di gareggiar con questi
Ameni e grati fiori:
Ma posso io mai, tranquilla
Veder senz’invidiarla,
50Sì dolce sorte loro
E il tuo favor per essi?» –
«E la cagione è questa
Del tuo dolore, o pianta?
Se di tue frondi adorno
55Io d’or innanzi il crine:
E se ne’ giuochi miei
Il vincitor superbo
Sol di tue foglie sempre
Adornerà la fronte,
60Dimmi, diletta mia,
A viver tornerai?»
Siccome all’improvviso
Rieder d’amato sposo,
Estinto in pria creduto,
65Un vivido rossore
Diffondesi repente
Sulle pallide guancie
Della sposa dolente;
Così l’Alloro mesto
70Subito ravvivossi,
E da quel dì, felice,
Non appassì più mai.