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del suo nome, un breve discorso in quella lingua che egli preferiva. Quel buon ecclesiastico, commosso per una felicitazione così straordinaria, stabilì ricompensarla coll’insegnarle la lingua slava, e l’infaticabile Elisabetta vi acconsentì con gioia. Tradusse in seguito alcune odi di Orazio, ma in generale preferì sempre la letteratura greca.
Da quel momento, lo zelo ardentissimo che avea di istruirsi unito ad una nobile emulazione le inspirò il desiderio di internarsi in quell’augusto Santuario dell’Antichità. Un giorno che il maestro ebbe occasione di fare, innanzi a lei, l’apologia sempre combattuta e sempre vincitrice delle bellezze della poesia greca, e in ispecial modo di quella di Omero, Elisabetta abbracciò l’opinione del suo precettore ed amico che si era dato a sostenere e a dimostrare agli avversari, che in niun’altra letteratura si ritrovavano a un tempo riunite, e nello stesso grado, la ricchezza, la leggiadria de colori, la varietà e la perfezione delle forme; e che sarebbe, se non per altro, utilissimo lo studiare quella poesia primitiva, unicamente per vedere fin dove può giungere l’armonia che si stabilisce fra lo spirito creatore e la materia con che modifica e riveste le proprie idee. Rimasta sola a meditare sopra questo argomento, il signor Grossheinrich potè facilmente, ritrovandola il giorno appresso tutta agitata, indovinare la cagione di quell’interna commozione. Non potendo ella gustare quelle bellezze tanto vantate, e che tali le sembravano, piangea di non poterle leggere nel loro idioma. Egli mostrolle una bella edizione di Omero che seco a bella posta avea recata, la richiese se le riuscirebbe grato il leggere quell’autore. «E come tentare simile impresa?» – «Perchè no? Altre donne hanno di già perfettamente imparato il greco. Madama Dacier non solamente lesse Omero, ma il tradusse.» – Chiaro appariva ch’ella il desiderava, ma come importunare un uomo che tante cure le avea di già prodigate. Ma egli stabili i giorni ne’ quali le avrebbe insegnato il greco, e le fe’ dono dell’edizione di Omero. La gioia di Elisabetta non ebbe freno, e prese le mani del suo benefattore le baciava, bagnandole di lagrime,