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prefazione alla seconda edizione 35

al resto non mi fu segnalato fraintendimento di nessuno dei lettori competenti e imparziali; i quali, senza che io abbia bisogno di nominarli con le lodi che meritano, ve-



    per conseguenza, resta sempre a dimostrare se ci sia o no qualcosa di corrispondente fuor di me. Ma io ho coscienza della mia esistenza nel tempo (e perciò della sua determinabilità in questo), per mezzo della mia esperienza interna; ciò che è più che aver coscienza semplicemente della mia rappresentazione, ed equivale alla coscienza empirica della mia esistenza, la quale non può essere determinata se non per rapporto a qualcosa che, legato con la mia esistenza, sia fuor di me. Questa coscienza della mia esistenza nel tempo è dunque identicamente legata con la coscienza di un rapporto a qualche cosa fuori di me; ed è perciò l’esperienza e non la finzione, il senso e non l’immaginazione, che lega inseparabilmente l’esterno al mio senso interno; poichè il senso esterno è già in sè relazione dell’intuizione a qualcosa di reale fuor di me, e la realtà di questo qualcosa — a differenza della immaginazione — non riposa se non su ciò che è inseparabilmente legato alla stessa esperienza interna, come la condizione della sua possibilità; e così è nel nostro caso. Se io alla coscienza intellettuale del mio esistere, nella rappresentazione Io sono, che accompagna tutti i miei giudizi e le operazioni del mio intelletto, potessi unire anche una determinazione della mia esistenza mediante una intuizione intellettuale, a questa non apparterrebbe necessariamente la coscienza di un rapporto a qualcosa fuori di me. Se non che quella coscienza intellettuale procede veramente; ma l’intuizione interna, nella quale soltanto può esser determinato il mio esistere, è sensibile, e legata alla condizione del tempo; e questa determinazione, e con essa l’esperienza interna, dipende da qualcosa di immutabile, che non è in me, e per conseguenza è solo in qualche cosa fuori di me; per modo che la realtà del senso esterno è necessariamente collegata, perchè possa esservi una esperienza in generale, con quella del senso interno: cioè io sono consapevole con tanta certezza che fuori di me esistono cose, che vengono in rapporto coi miei sensi, con quanta certezza sono consapevole che esisto io stesso determinato nel tempo. Ma, a quali intuizioni date corrispondano realmente fuor di me degli oggetti, che appartengono perciò al senso esterno, cui debbono attribuirsi piuttosto che all’immaginazione, è cosa da stabilire in ciascun caso particolare, secondo regole per cui l’esperienza in genere (anche interna) vien distinta dall’immaginazione; laddove il principio, che c’è realmente una esperienza esterna, rimane immutabile come fondamento. A questo si può ancora aggiungere l’osservazione, che la rappresentazione di qualche cosa di permanente nell’esistenza non è tutt’uno con la rappresentazione permanente; giacchè questa può essere mutevolissima e instabilissima, come le nostre rappresentazioni tutte, comprese quella di materia, e aver tuttavia rapporto con qualcosa di permanente, che perciò dev’essere alcunchè di esterno e di diverso da tutte le nostre rappresentazioni; la cui esistenza, compresa necessariamente nella determinazione della mia propria esistenza, costituisce con essa un’unica esperienza, che non sarebbe interna, se a un tempo non fosse (in parte) anche esterna. Come? Noi qui non lo possiamo spiegare, come non ci è possibile spiegare in generale ciò che nel tempo permane, e dalla cui simultaneità con ciò che cambia sorge in concetto del cangiamento (N. di K.)