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Joppi,

provincia nostra avea trovato pace e prosperità, ben largo compenso alla perdita della sua autonomia, poichè, durante il fiacco governo de’ Patriarchi di Aquileja, desolata da perpetue lotte intestine, ess’era sempre rimasta molto addietro nelle lettere, nelle scienze e nelle arti.

Nel Cinquecento, illustrato fra noi dagli Amaltei, dal Luisini e dal Valvasone, coltissimi scrittori di prose e rime italiane, troviamo eziandio i primi prodotti letterarj in lingua friulana, dettati da uomini di qualche ingegno, quali il Morlupino, il Sini, il Biancone ed altri. Non sono che pochi frammenti, la maggior parte poetici, ma tutti preziosi per la storia della lingua. Il Liruti, lo storico della letteratura friulana, che ricorda così gran numero di scritture patrie, sdegnò di registrare le vernacole, quasi vergognandosi dell’abito incolto del parlare nativo. Erano i tempi della più assoluta ammirazione per le lingue classiche, e possiamo facilmente scusarlo di questa noncuranza.

La vena dello scriver friulano scorre più abondante nel secolo XVII. Alla copia s’unisce lo spirito, che però spesso degenera in scurrilità; e la lingua si fa più ripulita, più elegante e più dolce, ma però meno caratteristica ed originale che non nei tempi anteriori. La fantasia è fresca, lo stile facile ed il gusto più corretto che non nelle ampollose poesie italiane de’ contemporanei.

Anche qui la messe più ricca è di versi; l’amore è il tema favorito; ma un amore ben più sensuale che non platonico. Le burle facete, le avventure oscene, le satire, s’alternano colle poesie sacre o di occasione; e, pur troppo, ben rare volte la Musa vernacola s’innalza a celebrare nobili gesta o la dolce tranquillità della vita dei campi.

I migliori poeti friulani del Seicento sono Eusebio Stella di Spilimbergo e il conte Ermes di Colloredo, questi vantato sopra gli altri, anche perchè la stampa ne divulgò le briose composizioni per ogni parte della provincia. Appartengono ancora a questo secolo le Rime di Paolo Fistulario e de’ suoi allegri compagni, oltre quelle di molt’altri anonimi, che se non brillano sempre per la novità de’ concetti, ci debbono pure esser cari perchè hanno mantenuto ben vivo il culto operoso della patria favella.

Nel secolo XVIII decadiamo. Abondano le Poesie Morali ma se il buon costume ci ha guadagnato, la lingua ha perduto all’incontro molta parte della sua freschezza, e spesso diresti che si scriva traducendo dall’italiano, così nel verso come nella prosa. Si distinguono tuttavolta: Gabriele Paciani di Cividale e il Busizio di Gorizia, au-