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non ci parlate di felicità: in casa o fuori, nella cattedra o nella poltrona accanto al fuoco, noi non la troveremo mai, lo sappiamo: è la voce dei secoli che ce lo dice: è l’eco della vostra voce di ieri che ci incitava severamente al martirio. Non c’illudiamo, dunque, è meglio; poi la ricerca ostinata affannosa della felicità è un egoismo supremo. Lasciamolo agli uomini. Mettiamo un’altra parola invece, una parola pia, umile, buona; diciamo: consolazione.
Si tratta quindi di consolarci con un’elevazione morale delle ingiustizie, dei travagli, delle pene che piovono sul debole capo della donna — non so perchè — in maggior quantità. E se questa consolazione, per le circostanze, o per l’indole, o per l’educazione, qualche donna può trovarla vera ed efficace fra le miserie di un ospedale o fra le luminosità del regno dell’arte, perchè l’uomo, il suo compagno, dovrà dire a costei che non sarà mai una fuggitiva ma sempre una diseredata: vattene, qui non c’è posto per te!? — Per rimetterla ad ogni costo nello stretto circolo delle attribuzioni domestiche? Ma se il suo focolare è freddo? E questa anima grande e severa avida di ritemprarsi alle fonti della scienza, credete che potrà raccogliervisi e rassegnarsi a spegnersi anch’essa inutile e infeconda? A vantaggio di che?
Mi fanno ridere quelli che parlano di concorrenza. Come se non fosse molto più comodo e più facile per la donna di rimanersene nella sua casa a far qualche lavoruccio, leggere qualche romanzo, a strimpellare qualche melodia; come se la via che ci guida a un ideale qualunque, appena fuori della soglia domestica non fosse, per noi, infinitamente più ardua e più ingombra che per gli uomini!